Tutta la phobia nella vita di David Mazzucchelli

Un avvertimento  Phobia non è un fumetto per un giorno di pioggia. Abbiamo recuperato questo volume nel clamore del successo di Asterios Polyp di cui promettiamo di scrivere presto. Cinque storie brevi scritte e disegnate da David Mazzucchelli negli anni novanta, tradotte e raccolte in un volume dalla Coconino press nel 2003. Cinque gemme, o meglio quattro gemme (una è trascurabile), quattro aghi piantati nella coscienza, sospesi tra il peso di vivere e la grande letteratura americana del '900 che l'ha raccontata.  Abbiamo conosciuto Mazzucchelli tanti anni fa sulle pagine di Devil, il supereroe o meglio l'antieroe cieco della Marvel. Allora solo disegnatore mentre alla macchina da scrivere c’era un Frank Miller ispirato. Un disegno che faticava a rimanere attaccato ai canoni del genere. Già allora si percepiva che Mazzucchelli guardava altrove. Lo abbiamo ritrovato poi nella trasposizione della città di vetro di Paul Auster per opera di Paul Karasis e la supervisione di Scott Mc Cloud. Un’opera a suo modo tutta ideologica nel tentativo di dimostrare scientificamente come si potesse traslitterare un romanzo in un analogo della letteratura per immagini o meglio dell'arte sequenziale come la definiva lo stesso Mc Cloud. 

In questi brevi racconti il suo segno era già maturato.  La crisalide si era dischiusa rivelando una farfalla astratta. Il segno  era completamente scarnificato, ridotto all'essenziale, al significato. Poco più che un graffio sulla tavola. E così lo ritroviamo in queste short story, molto diverse per epoca e temi. Forse la meno apprezzabile è quella che da l’albo prende il nome. Certo è anche quella che ha il titolo più evocativo ma alla fine si rivela poco più che un raccontino che mixa fantascienza e hard boiled  giocandosi il tutto per tutto in un doppio ribaltamento. Ma la storia non lievita. Rimane la sensazione di qualcosa d’incompiuto, di non realizzato. Pur nella varietà delle storie che compongono l'album sembra fuori tema. Il filo comune che lega tutte le altre è un'osservazione disincantata della condizione umana, del trascinarsi avanti che finisce per essere l'unica forma di vivere che sembra possibile nella poetica di Mazzucchelli.  Così i racconti ci passano davanti come stazioni di un treno. 
Vediamo "Midori" il ritratto quasi documentaristico della ragazzina giapponese che sfoga tutta la sua frustrazione nel travestirsi da punk. Una fuga tutta interiore da realtà familiare fatta di regole e ordine. Un'alienazione in cambio di un’alienazione. C’è poi  "Rates of exchange", il  turista americano perso in un Parigi che non vediamo mai. Una brutta tosse lo consuma, un presagio di morte e non in senso metaforico mentre lui sembra trascorrere tutta la sua esistenza, o quel che ne rimane, viaggiando da città in città, soggiornando in alberghetti di terz'ordine e venendo a contatto con un'umanità variegata. Venendo a contatto perché il nostro protagonista non sembra mai in grado di andare oltre, di conoscere veramente qualcuno. E' un relitto che urta altri relitti in un'atmosfera alla "On the road" di Jack Kerouac. Amaro e divertente è "Stubs" il racconto più simbolico in cui una matita da tutta sé stessa per disegnare. Scoprirà presto e con rammarico che vivere vuol dire bruciare e consumarsi. Infine c'è la storia di un'agonia, una vecchia signora in una vecchia casa con tutta la sua vita raccolta in fotografie. Istanti, che lei stessa, suggerisce, andranno persi come lacrime nella pioggia. Diversissimi tra loro eppure ugualmente struggenti l'anziana e l'androide di Blade runner si assomigliano più di quanto potrebbero immaginare. Entrambi presi nella morsa straziante del ricordo e del senso dell'esistenza. Per entrambi, come per tutti suggerisce forse l'autore, la battaglia con la vita appare segnata. Quello che per noi era importante, come il nome del cane che avevamo da bambini e di cui abbiamo servato il ricordo racchiuso in una fotografia per tanti anni, non interesserà a nessuno e alla nostra morte sparirà con noi. "Dead dog" è il primo racconto del libro ma è quello che colpisce più a fondo. Disperato si svolge quasi inevitabilemente in un'America di provincia, opaca e piegata su sé stessa. Straniante e claustrofobico anche per l'ocra che colora le vignette sovrapponendosi al bianco e nero. Quel marrone slavato come nicotina, come una carta moschicida, come la patina del tempo risulta davvero urticante caricando l'atmosfera del fumetto. Come una mano sul plesso solare toglie l’aria dai nostri polmoni mettendoci davanti alle paure più profonde.
Stazioni diverse viste da un treno in corsa dicevamo. Angolazioni diverse di uno stesso viaggio nel dolore e dell'incertezza che è poi l'esistenza dell'uomo, un viaggio di cui è certo l'inizio e la fine. Senza tante soste da dedicare alla speranza. Il tempo è quello che è. Punto.  Quello che c'è in mezzo però, sembra suggerire l'autore, andrà perso, ma sta a noi metterlo insieme. Accontentiamoci!

Commenti