Hideout, non c'è nascondiglio da se stessi

 


Dove ci si può nascondere? Soprattutto da sé stessi? E’ questo l’interrogativo intorno a cui sembra girare
Hideout di Masasumi Kakizaki. Un titolo che è già programmatico con quel termine inglese che il vocabolario ci traduce come “nascondiglio”. Un piccolo horror, quello pubblicato dai tipi della Planet Manga, etichetta di Panini, che parte con un’impostazione molto classica per raccontare la discesa agli inferi di uno scrittore in crisi. Una crisi innanzitutto d'ispirazione che diventa poi man mano crisi economica e poi crisi esistenziale e senza appigli. Uno sprofondare mano a mano nella follia che il lettore scopre attraverso un continuo alternarsi di flashback. Un alternarsi tra la tenebra del presente narrativo e la luce (sempre meno) dello ieri, di quel passato che fa da innesco alla storia. Un alternarsi di chiaro e buio che si traduce anche nel disegno nel succedersi dei bianchi e dei neri. Una struttura che invece di rimanere celata si vede fin troppo, sia a livello narrativo sia grafico. E’ forse questo uno dei difetti maggiori di Hideout: quella sua costruzione geometrica, piena di simmetrie, che dà  più di una traccia su come si risolverà la vicenda. Un teorema che non potrà che essere dimostrato con la chiusura del cerchio.

Il resto è un occhieggiare ammirato dell’autore all’opera di Stephen King. Che il mangaka di Gene X, Rainbow e Green Blood elegga per Hideout a sua musa il re del terrore lo dichiara lui stesso nelle note conclusive risalenti al 2010. Un’ispirazione che si affanna nello scavare nella psicologia del protagonista che diventa, mano a mano la vicenda prosegue, il motore narrativo. Un motore un po’ stentato, occorre ammetterlo, che finisce per perdere quel senso di angoscia e oppressione che inghiotte intrappolando all’inizio il nostro scrittore in cerca di redenzione. Un labirinto, un dungeon scavato nella roccia che da fisico però diventa tutto mentale. La peggior prigione è nella nostra mente, sembra suggerire Kakizaki, qui alla sua prima sceneggiatura. L’ennesima simmetria che però, come detto, porta la storia su binari del deja vu, di un esercizio quasi di stile ma senza virtuosismi. Non è forse un caso che il protagonista sia uno scrittore, carriera a cui Kakizaki ambiva ma che non gli ha arriso e poi ha sublimato nel ruolo di mangaka dovendo sudare per poter ottenere la fiducia degli editori nipponici oltre che per i disegni anche per le sceneggiature. Non a caso è ancora l’autore nella postfazione a scrivere d’aver estratto il “veleno” che aveva in corpo con quest’opera e che “spera di poter presentare un “manga più maturo”. 


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