Pyongyang - Uno sguardo indiscreto al Paese proibito

Mi piace cominciare quest'avventura con Pyongyang di Guy Delisle, un fumetto così atipico e importante nello stesso tempo. L'autore infatti confeziona un'opera che colpisce fin dalle prime pagine. Capace di ammaliare anche chi generalmente di fumetti non ne legge o li conosce poco.
A quanti pensano che fumetto voglia dire solo eroi in calzamaglia o animali parlanti, Delisle dimostra come questo mezzo abbia capacità espressive spesso sottovalutate e una forza che va aldilà di ogni stereotipo. Intendiamoci il fumetto è anche (e per fortuna) i suoi stereotipi, dalle strisce delle major, alla velocità dei manga, dai supereroi dei comics americani ai personaggi "eterni" delle serie bonelliane e della Disney. Ma (e per fortuna) non solo quelli. Come un qualsiasi strumento anche la nuvola disegnata, suona più o meno bene a seconda di chi la suona. Non ci sono arti minori ma artisti minori, diceva Fabrizio De André, esprimendo lo stesso concetto. Con Pyongyang Delisle si candida al titolo di virtuoso, battendo la strada del reportage a fumetti secondo una pista poco esplorata e che conta come pietra miliare Palestina di Joe Sacco. Questa volta lo scenario però non è il Medio Oriente ma la Corea del Nord. L’autore mette in scena i due mesi che ha vissuto nella capitale del “caro leader” dirigendo uno studio di animazione.
Con la sua narrazione di piccoli fatti ed eventi quotidiani Delisle ci catapulta in una dimensione altra, in quella che è la vera città proibita della nostra epoca. Un Paese così chiuso e misterioso da rivaleggiare ormai con il Tibet del '800. Se un Peter Hopkirk del XXII secolo ricostruirà la storia e vorrà narrarne l’epopea della riscoperta non potrà ignorare questo lavoro.
Con un disegno semplice, fatto di pochi tratti puliti, le sue figure stilizzate, quasi caricaturali e qui la memoria va all’opera della Marjane Satrapi, Delisle ci dà in presa diretta cosa voglia dire vivere in Corea oggi dopo 50 anni di regime. Non solo un Paese distante, dell'Estremo oriente appunto. Ma un Paese altro, diverso eppure sottilmente vicino a noi. Soprattutto per chi ha almeno 40 non può non sentire un brivido, qui l'utopia ha preso carne. Qui l'ideologia si è fatta uomo, o meglio ha rifatto l'uomo. Qui il futuro radioso e distopico che ha diviso in due l'Europa per mezzo secolo e da cui noi, siamo stati solo sfiorati, che abbiamo vissuto come paura, è diventato realtà, è diventato la realtà. Il comunismo coreano ci ricorda i film di fantascienza degli anni '50 in cui il protagonista tornava sulla Terra, la sua Terra solo per trovarla cambiata. Rispetto a quello che ricorda, che conosce, c'è sempre uno iato. Delisle cerca riferimenti più alti e non a caso si porta in valigia "1984" di George Orwell, metafora di una realtà che beffardamente supera la letteratura e che ne diventa l'antimateria. Non ha caso l'interprete cui l'autore lo regala, quando si rende conto di cosa ha per le mani, corre a liberarsene. Così Delisle ha buon gioco nell'inidicare con un effetto comico (tipico dello spiazzamento) e nel contempo altamento tragico, le piccole e grandi stranezze in cui si imbatte, le assurde pretese del regime, la sua propaganda ormai divenuta coscienza nazionale, asfissiante, pervasiva, annichilente. Mette in mostra gli abiti dell’imperatore che ricoprono ogni cosa e che bisogna per forza vedere, o che forse ormai non si riescono a non vedere. Il tutto però con una grande umanità, senza mai voler ergersi a moralista ma con uno stile da turista d’altri tempi, distaccato, curioso, talvolta sconcertato da quel che vede ma che non riesce a non provare empatia per la gente che lo circonda. Un continuo pendolo tra la vita materiale e il senso di oppressione e di alienazione di cui la dittatura coreana si fa forza.
Sensazioni che proviamo anche noi, come in presa diretta appunto perché Guy Delisle ci fa essere là con lui. E' questa la forza del suo fumetto. La matita dell’autore vale più di cento documentari, sembra per magia riuscire a scorrere e tracciare i suoi segni unendo i punti di accumulazione della realtà. Tutto quello che non serve, il superfluo, il ridondante, sparisce, si dissolve. Sulla carta nelle vignette rimane solo quello che è importante. Un distillato che è la soggettiva dell’autore e che diventa la nostra. Nel bene e nel male naturalmente. Quando scorriamo le pagine di Pyongpyang siamo nella sua memoria, viaggiamo tra i suoi ricordi che diventano i nostri. E’ come se ci parlasse in un linguaggio macchina, più profondo e diretto. E quindi molto potente.
Così siamo a fianco dell’autore, del suo pupazzetto, mentre sperimenta i disagi della vita coreana, ci fa assaporare la gioia per della verdura fresca a tavola o per una tovaglia pulita, proviamo l’irritazione per l’assoggettamento agli omaggi dovuti alle icone del grande leader con la deposizione dei fiori ai piedi della sua statua all’arrivo all’aeroporto piuttosto che il museo megalomane con i regali fatti dal mondo al dittatore. Non possiamo non condividere i suoi piccoli gesti di ribellione, dal portasi in valigia il già citato romanzo “1984” all’abitudine di camminare a piedi e soprattutto il confezionare areoplanini di carta da lanciare, liberi, almeno loro, nel vuoto.

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